
L’allenamento a sensazione come corretta interpretazione della tabella di allenamento.
Non c’è che dire, la tecnologia aiuta gli allenatori ed è uno strumento di analisi valido e dettagliato a valle di una prestazione in allenamento o in gara, o a valle di un test atletico, per stabilire nel modo più scientifico possibile la programmazione adeguata al raggiungimento di un obiettivo. Ad oggi la maggior parte di chi corre o pratica sport di endurance come triathlon, trail running ed ultra running, possiede un orologio con gps e cardiofrequenzimetro, ed è costantemente sotto scacco delle indicazioni del famigerato attrezzo agganciato al polso, in ogni istante della giornata. Lo uso anche io: è divertente e curioso interrogarsi a fine giornata riguardo calorie consumate, passi effettuati, km percorsi, ore dormite e qualità del sonno, frequenza cardiaca a riposo.
Dopo gli allenamenti è prassi controllare maniacalmente ogni singolo dato dai nomi più strani e disparati, quasi fossero sigle di aerei da combattimento; così pam, oscillazione verticale, tempo di contatto con il suolo, training effect, fc media e massima , passo istantaneo e dislivello diventano oggetto di discussione delle nostre serate, di gioia e vanto o di depressione. C’è poi chi ancor più maniacalmente non riesce a percorrere più di duecento metri del suo allenamento, senza poter tenere sotto controllo passo istantaneo, passo medio, frequenza cardiaca, cadenza di corsa o pedalata…
Di correnti di pensiero sulle metodologie di allenamento ce ne sono tante, accessibili più o meno a tutti attraverso accurate ricerche sul web. Dai coach considerati ‘guru’ del triathlon, della corsa e della preparazione atletica provengono teorie spesso contrapposte, come l’irrisolvibile dibattito tra allenamento “a sensazione” ed allenamento “scientifico monitorato”. Per me il gap non è così grande come sembra tra le due teorie: immaginate infatti i risultati raggiungibili con una corretta programmazione, che riesca ad essere interpretata secondo le giuste intensità in base alle sensazioni dell’atleta?! Forse la chiave è proprio questa per un professionista dello sport, ma anche e soprattutto per chi ne fa una passione che riempie le giornate e va gestita con serenità insieme a lavoro, famiglia, impegni vari, stress, spostamenti, appuntamenti, disponibilità di alimentarsi e dormire quantitativamente e qualitativamente in maniera “corretta”.
Siamo davvero in grado di ascoltare il nostro corpo, di capirne i messaggi, le sensazioni?
Bene, il parametro che ci conduce alla vittoria, che sia essa un qualsiasi obiettivo sportivo che in cuor nostro vorremmo poter raggiungere, non si trova tra tutte le sigle e nomi scientifici citati sopra; il valore aggiunto, la sensazione, è qualcosa che è nata con l’uomo e che si è persa paradossalmente nella sua evoluzione. Immaginiamo che il nostro monitor di allenamento potesse essere in sintonia con noi, saremmo realmente in grado di leggerlo e comprenderne i valori? Se ci chiedessero di tenere un ritmo molto blando, saremmo in grado di poterlo sostenere senza dover necessariamente definirlo in termini di passo a km? Allenarsi senza conoscere la velocità della nostra attività ci renderebbe comunque soddisfatti del nostro “allenamento”, della nostra corsa?
Un oggetto che possa leggere e definire le nostre percezioni, magari con tre semplici colori come quelli di un semaforo stradale, sarebbe davvero la chiave del successo; ci permetterebbe di imparare tanto, di mettere il nostro ego smisurato in un cassetto e di non essere più vincolati alle concezioni di passo a km, velocità e frequenza cardiaca; ci permetterebbe di non deprimerci perchè abbiamo effettuato una corsa definita “lenta” dal nostro programma, un foglio interattivo o di carta, qualche secondo a km più lenta del ritmo a cui siamo di solito abituati. Ci permetterebbe di considerarci uomini a tutto tondo, senza legare necessariamente la nostra giornata e la nostra soddisfazione sportiva ad uno o più valori numerici stabiliti su determinati parametri, spesso anche statisticamente non troppo validi e riproducibili, ma legandola allo stato d’animo ed alla condizione che si percepisce prima, durante e dopo l’allenamento.
Lo sport dovrebbe fare bene, essere uno stimolo costruttivo per il corpo e per la mente, specialmente se non si fa per lavoro; non dovrebbe di certo portarci frustrazione, ansia e spossatezza eccessiva nella vita.
Il fisico c’entra, ma si sottovaluta il sistema nervoso, parte del nostro corpo ed organo come gli altri, come i muscoli, come i polmoni, come il cuore. Il sistema nervoso è il direttore d’orchestra, ed i vari organi non possono coordinarsi bene tra loro nello svolgere le loro funzioni vitali e soprattutto prestative, se viene a mancare una stabilità ed una serenità psicologica di base; non è un caso che per un amatore, spesso i risultati migliori arrivino dopo periodi di stop, nei periodi di minor allenamento e minor stress quotidiano, nei periodi in cui le aspettative e la tensione nervosa di allenamenti e gare sono inferiori; in quella situazione l’essere umano, entità da considerare a tutto tondo e non come una macchina, ha trovato la giusta dimensione, il compromesso corretto tra hobby e sacrificio; si, perchè l’endurance è anche questo, uno sport di prestazione e sudore.
Quanti di noi riuscirebbero allenandosi, anche dopo anni di esperienza, a capire se il semaforo è rosso, giallo o verde?
Ma d’altronde chi meglio di noi, se imparassimo ad ascoltarci con umiltà e senza costruzioni mentali imposte e radicate che ci offuscano anche la ragione, potrebbe capirlo….un super-hop?!
Per semplicità riporto il caso della corsa: molti esperti triatleti e runner sarebbero certamente in grado di correre ad un ritmo qualsiasi gli venga imposto, forse senza neanche stare a guardare il cronometro: bhe, merito dell’esperienza! Probabilmente in pochi sarebbero in grado di riconoscere il loro semaforo verde, ma soprattutto in pochi sarebbero in grado di definire il loro semaforo rosso, perchè l’ego ne verrebbe fortemente colpito durante e dopo l’allenamento, in fase di analisi compulsiva dei dati al pc e di discussione con gli amici sportivi. Se non si è mai provato a correre pianissimo, come ad esempio potrebbe essere correre a sette minuti per km per un runner da tre ore in maratona, a correre piano, come potrebbe essere un passo di sei minuti per km per lo stesso runner, o in regime aerobico allenante, ad esempio cinque minuti per km, come si può pretendere di conoscersi, di definirsi corridore, runner, triatleta?! Se non si sperimenta l’intero range di ritmi di allenamento e le relative sensazioni, come ci si può vantare di saper correre, di sapere cosa vuol dire realmente garantire un recupero al corpo che ce lo chiede disperatamente quando ne ha bisogno, imponendoci spesso stop forzati attraverso infortuni quando è stato raggiunto il limite?! Il bambino, essere puro ed incondizionato, imparerà prima a gattonare, poi a camminare, poi a correre lentamente, e successivamente a correre veloce; quando si inizia a guidare nessuna persona responsabile partirebbe a duecento km/h per capire i meccanismi che stanno dietro la guida ed apprendere il gesto ed il “feeling” con esso.
Il keniano, atleta inarrivabile da corsa di endurance, gazzella incontrastata tra i bipedi, sarà cresciuto pensando a pam, frequenza cardiaca, Garmin, Polar, Timex, oscillazioni verticali e ritmi a km, correndo per andare a scuola o per procurarsi l’acqua? Avrà pensato mettendosi in posizione di squat per giocare e parlare con gli amici, per aspettare un autobus, per raccogliere qualcosa di pesante, schiena dritta, sedere all’altezza delle ginocchia e ginocchia non oltre la punta dei piedi?
La forza incontrastata nella corsa di endurance di Etiopi e Kenioti, che definiamo genetica, è semplicemente una struttura fisica ed una base aerobica enorme costruita nella vita di tutti i giorni come adattamento evolutivo ad un habitat che non permette all’uomo di non essere “uomo”; l’habitat obbliga tali popoli a mantenere i semplici gesti naturali dell’essere umano, come corsa e squat. Il keniano sa correre perfettamente, non forza i ritmi per andare a scuola, sarebbe inefficiente; l’etiope si è ‘allenato a ritmi blandi’ nella quotidianità, rispettando il corpo, per anni e anni; poi ci chiediamo il perchè a 25/30 anni esseri umani del genere siano in grado di diventare “atleti” invincibili, di tollerare carichi di allenamento tanto intensi e di correre a ritmi per noi impossibili da raggiungere anche per un solo chilometro.
Le risposte a queste domande le conosciamo: ragionando con umiltà per nessuno è difficile tirarle fuori e costruirsi il suo schema, il suo gps sensazionale dal valore inestimabile.